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Luglio 10, 2020 In Buone notizie, Eventi

Mediazione e conflitto nell’infosfera

infosfera

Intervista a Michele Marangi, docente Università Cattolica di Milano, Media Educator e Formatore

a cura di Maria Grazia Gispi, giornalista, ufficio stampa CSV Insubria

Oltre la giustizia riparativa, per la mediazione dei conflitti. A Como progetto COnTatto lavora da tre anni sul tema emerso sul territorio in modo sperimentale e poi evoluto oltre la prassi nell’approfondimento di cosa volesse dire occuparsi della materia giuridica e sociale, fino alle attuali connessioni europee. 
Il progetto, partecipato da un’ampia compagine di realtà, due università e il Comune di Como, è cofinanziato da Fondazione Cariplo.

COnTatto ha tenuto maglie molto larghe nell’intendere il superamento del conflitto attraverso la mediazione e corona una storia locale per passare il testimone a un futuro di lavoro.

Questo itinerario di pratiche e ragionamenti in evoluzione incappa nel tempo sospeso del lockdown, dove uno degli elementi è stato lo sconvolgimento della comunicazione migrata nella sua totalità nella “onlife” definita da Luciano Floridi. La comunicazione digitale c’era ma non è comparabile per la sua esclusività nella primavera 2020 rispetto a ogni altra esperienza pregressa. 

Cosa ha voluto dire questa accelerazione, questa trasformazione repentina e radicale in termini di relazione tra le persone? E se la linfa che costruisce la mediazione dei conflitti è la relazione, in questo tempo che ha trasfigurato le relazioni come è cambiata la comunicazione e in quale futuro ci si può proiettare dopo una esperienza collettiva così pervasiva?

Il primo dato che questi tre mesi di lockdown ci hanno restituito è che la relazione on line è diversa, ovvio, ma meno ovvio è che il digitale non è solo uno strumento comunicativo che permette di interfacciarsi nello stesso modo da remoto, bisogna invece impegnarsi per capire qual è la postura comunicativa più corretta, quale la relazione da tenere nel contesto digitale. Molto dipende da quali strumenti ho, se ho una buona connessione, schermo, strumento. Ma non basta quello che è definito digital device. L’altro elemento fondamentale è che la comunicazione digitale esige più densità, concentrazione e la necessità di non dare nulla per scontato, perché ci si trova nell’impossibilità di toccarsi e guardarsi negli occhi, di completare la comunicazione verbale con altro. Nei progetti a forte vocazione sociale e culturale lo sforzo è esponenziale perché devo permettere l’accessibilità che non è più solo tecnologica ma relazionale. Devo anche aver cura di non invadere dei campi troppo personali e porre attenzione al tempo, a come faccio a condensare senza essere parco, arido. La cosa stupefacente è che la distanza ha permesso maggiore vicinanza, perché si è entrati nelle case delle persone. Improvvisamente un operatore, un docente, un formatore o formatrice non è più il ruolo che in un’aula è codificato ma è una persona che ha una libreria, un poster. Questa apertura personale è straordinaria perché abbassa molto le distanze ma anche rischiosa perché ci si chiede dove finisca la parte di messa in scena professionale di sé, quel ruolo istituzionale che talvolta è necessario e dove inizi la parte più identitaria e umana. La situazione è complessa perché non è possibile riversare sulla comunicazione a distanza le dinamiche della presenza e tutti sono chiamati a uno sforzo per cambiare la modalità comunicativa. Dall’altra parte si nota come alcune dinamiche siano paradossalmente facilitate. In certi ambiti la comunicazione a distanza ha ottenuto un calo delle aggressioni fisiche, con esclusioni di quelle domestiche, sono aumentati però gli atti di cyberbullismo, di stalking. Ma in questo caso non si tratta tanto di un problema di comunicazione quanto di mancanza di educazione civica che si esprime con strumenti digitali.

Gli strumenti sono diventati elemento cruciale di discriminazione economica sociale e fattore che aumenta la difficoltà, per chi già è ai margini, di accedere alla relazione con gli altri. Un limite economico che si amplifica fino a quali rischi?

L’Italia è agli ultimi posti in Europa per la diffusione delle infrastrutture e dotazioni tecnologiche e questo è un primo dato oggettivo, inoltre sulle piattaforme on line è necessario garantire la pertinenza di accessibilità, più che l’inclusività. I due termini sono differenti: si intende inclusività quando un ingresso viene concesso, mentre l’accessibilità è un diritto di entrata. Per dirla con la logica dei servizi socio sanitari è questa la “bassa soglia” dove le persone devono poter entrare senza che nessuno conceda l’accesso. In fase di progettazione sarebbe opportuno dedicare un budget alle infrastrutture, agli strumenti. A una persona in uscita dal carcere o in condizione socio economiche problematiche bisognerebbe destinare in comodato d’uso un piccolo router, un buon pc. La riserva per cui “ma poi li usa anche per altre cose” apre a un altro aspetto: non si tratta solo di fornire un dispositivo digitale, ma anche di sviluppare competenze digitali che vanno oltre il saper usare i programmi, significano anche saper stare in quell’ambiente, essere creativo, capace di informarmi e raccontare di me. Tutte queste competenze se diffuse alzerebbero il livello di partecipazione sociale.

Ci siamo persi anche la casualità degli incontri. In un mondo a prevalenza digitale non “capita” più di scambiare due chiacchiere, ma si è obbligati sempre a cercare e scegliere. Se questo è vero, in quale misura condiziona la ricchezza delle relazioni?

Questo tema è ambiguo e interessante. La sfera digitale tende a farci frequentare persone che sono come noi. Nel volerci facilitare, l’algoritmo ci chiude in bolle relazionali, in ghetti. Nella realtà resiste la casualità degli incontri, ma dipende da come io mi pongo perché anche nel mondo non virtuale se si frequentano sempre solo certi luoghi si trovano sempre le stesse persone. La casualità la trovo in quegli spazi anche digitali dove gli interessi sono ampi, dove non sappiamo chi si troverà e due chiacchiere posso scambiarle anche lì. Questa è una bella sfida per chi lavora nell’ambito socio culturale, ovvero come costruire piattaforme orientate al libero accesso, una “piazza” in cui ci si ritrova. Esistono già diverse app di conferenze e di partecipazione con bacheca costruita in tempo reale e a disposizione di tutti. 

La relazione in una comunicazione virtuale è sempre 1 to 1, al massimo due o tre persone, ma nelle riunioni da remoto difficilmente si crea quella commistione e quel non detto che sperimentiamo attorno a un tavolo. Quale implicazioni comporta l’assenza di fisicità nella comunicazione di gruppo?

Anche in un gruppo di persone che si incontra fisicamente in un unico spazio non accade che parlino tutti insieme. La difficoltà vera è il saper rinunciare a trasportare sul digitale le stesse logiche delle relazioni fisiche e trovare invece formule differenti, adatte alla nuova dimensione. Per esempio ho notato che nei gruppi di qualsiasi tipo che si ritrovano da remoto le persone tendono a parlare meno e meglio, rispettano di più tutti gli altri.  Paradossalmente, potrebbe accedere che chi ha più problemi a esporsi in pubblico, penso ad esempio ad alcuni casi di “ritirati sociali”, in realtà si sia trovata meglio in questi mesi dove la comunicazione digitale è stata prevalente. Sono cambiate con le modalità anche le logiche comunicative e sta crescendo un florilegio di piattaforme che mescolano tv, chat e archivio video. Si creano così nuove comunità digitali, è il fenomeno degli adolescenti che, per esempio, videogiocano o guardano serie tv stando insieme da remoto, a volte condividendo gli schermi, commentando. Sono esempi di comunicazione multimodale, non solo multimediale o crossmediale. Per non restare nel gergo tecnico, l’accento non è tanto sul medium che uso, ma sul modo in cui lo utilizzo, unendo differenti registri comunicativi e stili relazionali.

In ogni comunicazione c’è una parte gestita dalla fisicità, dalle espressioni, dalla postura dei corpi, dal contatto fisico e spesso è proprio su questa parte di non detto che si costruisce complicità, comprensione, assenso e una relazione più forte. Se tutto ciò viene meno, come supplisce la comunicazione digitale a questo “assenza” di comunicazione non verbale?

Ho lavorato con cooperative che si occupano di persone svantaggiate e gli operatori sono rimasti sorpresi di come sia stato possibile mantenere le relazioni attraverso modalità inesplorate come fare esercizi fisici da remoto in video, oppure chiedendo alle persone di raccontare la loro casa, i loro spazi. Anche da remoto non esiste solo la comunicazione verbale, a volte è possibile interagire in modo esperienziale. Ci sono state “staffette narrative” o yoga allo specchio, così lo stare insieme non è più solo parlarsi, ascoltarsi, ma anche condividere momenti creativi o addirittura recuperare una parte della fisicità dei corpi a distanza. La tecnologia per creare legami e dialogo è una condizione necessaria ma non sufficiente, è necessario innestare quella che si chiama competenza anche alfabetica, espressiva ed etica. Non solo tecnologica. Da tempo la parola chiave della contemporaneità è l’ibridazione, Luciano Floridi ha coniato il termine “onlife” per la nostra condizione: non siamo più né off line né on line e le nostre vite sono un mix continuo delle due dimensioni. La sfida è questa e per fortuna siamo animali adattivi, ma per adattarci abbiamo bisogno di tempo. Il lavoro di progetti come COnTatto e per tutti quelli che operano con la marginalità è fare in modo che sempre più persone accedano alla sfera digitale e non rischino di rimanere nella periferia dell’impero. 

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